La "linguistica sociale", o più precisamente la "linguistica dello sviluppo sociale", è per noi un complesso di azioni volte all'empowerment della comunità a partire dal patrimonio linguistico di cui essa è depositaria e di cui ogni membro è testimone e co-autore.
Siamo infatti convinti che la comunità possa crescere da un punto di vista sociale ed economico, oltre che culturale e ambientale, attraverso un uso diretto o indiretto delle risorse linguistiche e narrative che ha a disposizione e di cui in genere non è consapevole.
Questo sviluppo consiste essenzialmente nell'approfondimento nel tempo e nell'estensione nello spazio delle reti di relazione del soggetto: ora collegato alle generazioni del passato attraverso, ad esempio, azioni di recupero della memoria orale; ora proiettato oltre le frontiere abituali attraverso l'acquisizione di nuove lingue o della lingua ancestrale.
In entrambi i casi, il soggetto diventa attore attivo di una comunità sempre più competente e desiderosa di conoscersi e orientare il proprio destino.
Per questa marcata attenzione alla persona e al ruolo che ha il linguaggio nella sua costruzione, la linguistica sociale integra e supera la fase descrittiva e interpretativa per configurarsi come prolungamento della "sociolinguistica della periferia" catalana e occitana.
Pensare una linguistica sociale: appunti di montagna
Giovanni Agresti
Una delle scoperte più sorprendenti per chi si occupi di ricerca linguistica è capire come poche persone sappiano, siano consapevoli di cosa sia una lingua, a partire dalla propria lingua materna.
Questa scoperta è sorprendente in quanto tutti noi siamo depositari di un sapere linguistico, che ci viene trasmesso in primo luogo dai nostri genitori o da chi circonda la nostra culla, e tutti siamo in grado di formulare opinioni su questa o quella lingua o dialetto, e molto spesso sulle persone che la parlano.
Alcune opinioni sono così diffuse che sembra persino assurdo pensare di rimetterle in discussione, ad esempio:
- "l'inglese è la lingua del presente e del futuro, se non conosci l'inglese non vai da nessuna parte al giorno d'oggi";
- "il dialetto è una lingua sgrammaticata";
- "la lingua X è molto musicale, la lingua Y è molto poetica".
E così via.
In realtà, poche persone hanno una elevata consapevolezza di cosa sia una lingua, e dunque poche persone sono in grado di formulare opinioni o giudizi equilibrati e fondati su di essa.
Questo paradosso si spiega con un fatto molto semplice: proprio perché la lingua accompagna la nostra crescita, ci nutre sin dalla nascita, non ce ne accorgiamo veramente, proprio come l'atto del respirare, che è in generale un meccanismo indipendente dalla nostra volontà.
Alcuni "incidenti" possono però risvegliare questa consapevolezza, come un infortunio o un malanno ci ricordano dell'esistenza e dei limiti del nostro corpo: essere forestieri, immigrati in un luogo di cui non conosciamo la lingua locale, certamente; ma anche non riuscire a trovare le parole per dir qualcosa di molto personale, per esprimere le proprie emozioni.
Ma cosa significa, concretamente, diventare più consapevoli di cosa sia la lingua che parliamo (o che ascoltiamo, o che leggiamo...)?
Direi che, per prima cosa, tale consapevolezza dovrebbe insegnarci che, soprattutto in determinate circostanze, non è esattamente vero che "parliamo" o "non parliamo" una data lingua. In determinate circostanze "siamo" la lingua che parliamo o che non sappiamo parlare. Non riuscire a esprimere a parole le proprie emozioni, ferire o rassicurare l'altro con le nostre parole, trasmettere un insegnamento possono fare di noi, almeno in quella circostanza, una persona preda dell'emozione, un predatore o un curatore del prossimo, un porto e un riferimento per chi ha bisogno di noi ecc. In determinate circostanze, ma forse, in realtà, durante la maggior parte del tempo, la lingua non è tanto, non è solo uno strumento, cioè un mezzo esterno a noi di cui noi ci serviamo ai nostri fini; la lingua è un prolungamento e una realizzazione del nostro essere, che si collega, visibilmente o invisibilmente, agli altri.
In questa prospettiva possiamo immaginare lo spazio, il territorio, il paese, il borgo, la cascina, la casa, ogni singola stanza di un'abitazione come luoghi a un tempo fisici e di relazione. Luoghi che possono animarsi attraverso il linguaggio delle persone che li vivono e trasformano giorno dopo giorno.
Abbiamo iniziato da alcuni anni a studiare la lingua in modo per così dire "materialistico", e cioè proprio come un tessuto di relazioni che occupa e modifica lo spazio, e in primo luogo la vita delle persone.
Queste relazioni sono come fili, talvolta visibili, tangibili, come un neonato nelle braccia della propria madre, oppure invisibili, ma non per questo meno concreti. Ecco che la memoria, il ricordo, la relazione con qualcuno che non è né qui né ora entra in scena. La memoria è quel piano dell'essere percorso, inciso dai tracciati dell'esperienza. Cesare Pavese usava una metafora fotografica molto eloquente: gli "stampi immaginativi". Ecco perché sollecitare la memoria partendo dalle fotografie di famiglia, come sa fare il nostro Gianfranco Spitilli, riporta alla luce quei tracciati e ci permette di non perdere quelle esperienze.
Accade però che nel racconto l'esperienza, cioè la sua rappresentazione, possa mutare. La funzione narrativa non si limita a descrivere un ricordo, ma lo riporta nell'attualità e, rappresentandolo, lo deforma, lo cambia. La funzione narrativa è profondamente legata alla memoria e al dialogo, all'atto del raccontare e alla situazione del racconto.
Questa situazione è visceralmente legata all'esistenza di ciascuno di noi. Raccontare non è solo dire una storia. Raccontare è essere quella storia, e quella storia è solo perchè c'è chi parla, chi la racconta, e chi la ascolta. Raccontare è, dunque, rappresentare una storia e, rappresentandola, far vivere narratore e ascoltare, cioè una comunità di linguaggio.
Alcuni miti si fondano su questa qualità vitale del racconto. Nelle Mille e una Notte, la bella Shéhérazade riesce a salvare la vita propria e delle altre spose destinate al re di Persia Shahryar grazie al suo talento narrativo che spinge il sovrano a rimandare per mille e una notte il proposito di ucciderla per vendicarsi del torto subito dalla prima moglie, che lo aveva convinto della perfidia di tutte le donne.
Ma, molto più vicino a noi, possiamo fare o abbiamo fatto l'esperienza piena, sociale, poetica del racconto: le veglie intorno al fuoco, i canti narrativi duranti i lavori agricoli, l'aedo locale, talvolta casuale, che monopolizza il gruppo attraverso la sua straordinaria capacità affabulatrice, come il Lupo di Castrogno l'altra sera a Penna Sant'Andrea... la parola, in tutte queste situazioni, è il vero cuore dello stare insieme, il perno e il collante della comunità.
Riassumendo, attraverso il racconto la memoria individuale e collettiva si dispiega e attualizza esperienze passate o perfino leggendarie, epiche. Questo dispiegamento, questa narrazione non è un fatto sterile, puramente informativo: se correttamente canalizzata, è una vera energia che trasforma ogni protagonista della narrazione, sia il narratore sia l'ascoltatore.
È in quest'ottica che abbiamo iniziato a pensare a una linguistica sociale. La linguistica sociale può essere intesa non tanto come uno sguardo portato sull'oggetto-lingua che si trasforma al contatto con la realtà viva che è la società (questo è sostanzialmente il compito della sociolinguistica) quanto come un'azione trasformativa della realtà sociale attraverso il "trattamento" della lingua della comunità. Questo trattamento o utilizzo può seguire varie strade, che sempre impongono una fase di raccolta/analisi e una fase di condivisione/ricaduta sociale dell'analisi.
Così, ad esempio, il racconto autobiografico messo "in rete" con altri racconti può contribuire a edificare una storia della comunità o ampliarne lo spazio di memoria o immaginario attraverso l'individuazione di nuclei prassematici (unità di costruzione del senso); oppure, partendo dall'analisi dei vari toponimi, si può mostrare come lo spazio in cui è inscritta la comunità possa essere inteso come un tessuto d'informazioni il più delle volte latenti che, se adeguatamente "risvegliate", possono rendere più leggibile e quindi più vivibile il territorio; ancora, l'analisi degli antroponimi (soprannomi>cognomi) può, se restituita correttamente, contribuire al consolidamento della memoria della collettività... in ogni caso la comunità risulterà maggiormente competente, cioè consapevole della propria identità linguistico-culturale.
Insomma, la lingua che veicola la memoria, cioè il discorso, è in grado di sviluppare un notevole potenziale umano suscettibile di elevare la qualità della vita in seno a una data comunità. È in questo senso che crediamo possibile e legittimo parlare di "valorizzazione della memoria e sviluppo sociale del territorio".